Biografia curata da Angiolo Bandinelli (*) per il 23° volume dell’opera “IL PARLAMENTO ITALIANO, Storia parlamentare e politica dell’Italia”, Nuova CEI Informatica, Milano.
Il 5 luglio 1976 si inaugurava, nella solennità di un collaudato cerimoniale, la settima legislatura. Il presidente provvisorio della seduta di apertura, on. Leonilde Jotti, aveva appena svolto i preliminari di rito che da uno degli scranni dell’estrema sinistra si alzava a chiedere la parola sull’ordine dei lavori il neodeputato Marco Pannella, eletto nelle liste del Partito radicale. Così, con un incidente procedurale che poté apparire ai più benevoli, o malevoli, come dettato da mero desiderio di pubblicità, magari televisiva, iniziava la stagione istituzionale dei radicali, approdati in Parlamento dopo due o tre lustri di iniziative militanti svoltesi fuori delle aule legislative, “per le strade e nelle carceri” come essi ripetevano non senza orgoglio. Varcavano la soglia di Montecitorio in quattro.
Il responso elettorale premiava solo parzialmente quelle campagne radicali per i diritti civili cui pure veniva attribuito il merito di aver modificato e modernizzato il paese: nel 1970 il Parlamento aveva approvato la legge Fortuna-Baslini sul divorzio, nel 1974 si svolgeva il referendum voluto da associazioni cattoliche e da settori della DC per abrogarla. Esso era certo vinto dal “fronte laico” a lungo auspicato da Pannella, ma soprattutto dai milioni di cittadini che vi esprimevano un voto di opinione, non condizionato dai partiti ma liberamente formatosi nel vivo di un grande, appassionato e civile dibattito. Sullo slancio, i radicali raccoglievano nel 1975 le firme per un ancor più dirompente referendum, quello sull’aborto. Intellettuali come Pasolini guardavano con simpatia al leader dei diritti civili e tentavano la traduzione marxiana del suo linguaggio libertario. Il paese, si avvertì, era molto più avanti delle sue classi dirigenti, colte di sorpresa e sconcertate: subito dopo il voto sul divorzio, l’on. Enrico Berlinguer aveva auspicato la sollecita ripresa del dialogo tra masse marxiste e cattoliche, per sanare la lacerazione referendaria e rendere possibile l’agognato compromesso storico.
Elezioni anticipate, quelle del 1976, convocate per ritardare – quanto meno – il temuto scontro sull’aborto. Lo stesso era accaduto quattro anni prima, per il divorzio (ma contro questa pratica del rinvio, che riduceva – scrissero – a “impostura e truffa” il gioco elettorale, nel 1972 i radicali avevano annunciato e propagandato l’astensione dal voto). Dc e PCI vi condussero un’abile campagna di forte contrapposizione, riuscendo a coagulare il pieno dei rispettivi consensi, il PSI toccava invece il minimo storico e dava corso ad un drammatico rinnovamento del gruppo dirigente, con la nomina a segretario dell’on. Bettino Craxi. I radicali ottenevano l’1,1% alla Camera e lo 0,8% al Senato. Il loro era un voto essenzialmente urbano, con il 32,5% dei consensi raccolti tra Roma (2,4%, grazie anche ai fili diretti non-stop di Marco Pannella a Radio Radicale, determinanti a far scattare il quorum per soli 270 voti), Milano e Torino. Pannella conseguiva un successo personale: sul suo nome, a Roma, si concentrava quasi il 40% dei voti di lista. Durante la campagna, con un lungo e defatigante digiuno, aveva strappato alla RAI TV una Tribuna politica cui la lista radicale non avrebbe avuto diritto: ma da tempo Pannella avvertiva che il futuro stesso della democrazia politica si sarebbe ormai giocato sull’informazione, e dunque in primo luogo sui comportamenti della TV di Stato.
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L’impegno politico del leader radicale aveva avuto inizio con una intensa militanza nelle organizzazioni universitarie, allora incunabulo di classi dirigenti: a venti anni incaricato nazionale universitario del partito liberale – conosciuto sulle pagine del “Risorgimento Liberale” di Mario Pannunzio – a ventitré era presidente dell’UNURI, l’organismo unitario degli studenti universitari. Nel 1955 lo troviamo tra i più tenaci assertori della fondazione del partito radicale – un “partito nuovo per una politica nuova” – e con questa formazione egli affronterà la sfortunata campagna elettorale condotta nel 1958 assieme ai repubblicani.
Nel 1960 è corrispondente de “Il Giorno” da Parigi, dove intreccia attivi rapporti con la resistenza algerina; ma quando il partito radicale, travolto dalle divisioni interne e soprattutto dall’avvento del centro-sinistra, entra in crisi e rischia il definitivo scioglimento, torna a raccogliere assieme a pochi amici e aderenti alla corrente di “sinistra radicale” la difficile eredità. Continuità ideale ma anche innovazioni: nel solco delle polemiche di Ernesto Rossi e della tradizione libertaria ed umanitaria socialista, Pannella accentua la linea di intransigente anticlericalismo e antimilitarismo, e affianca con iniziative militanti inedite per l’Italia le lotte per i diritti civili che in quegli anni scoppiano nei campus americani ed europei con la forza della nonviolenza gandhiana.
Nel 1965 si apre la campagna per il divorzio, nell’intesa con l’on. Loris Fortuna. Di due anni prima sono le inchieste giornalistiche e le campagne sulle deviazioni dell’ENI e sullo scandalo dell’assistenza e dell’ONMI romana che travolgeranno il sindaco della capitale Amerigo Petrucci. Intanto si sviluppa un intenso dialogo con Aldo Capitini sul significato e le forme della nonviolenza per il rinnovamento della politica non solo in Italia, e vengono avviate clamorose iniziative giudiziarie, quasi sempre concluse con processi vittoriosi, che portano l’attenzione del grande pubblico e della stessa classe politica – concentrata piuttosto a dibattere la problematica economica, i temi della “programmazione” – sui temi della giustizia, del diritto. E, nella multiforme produzione pannelliana di scritti, di interventi, di discorsi e polemiche si potrebbe già scorgere lo sforzo di definizione di una teoria e di una prassi liberali aperte a soggetti e ceti tradizionalmente subalterni e lontani, più diffusi che non siano quelli sempre più ristretti sui quali, al di là dell’eccezione del “Mondo” di Pannunzio, fanno ormai riferimento i partiti laici, o minori. Un liberalismo certamente laico ma non laicista, nutrito di un antico libertarismo per il quale la prima libertà da difendere è quella dell’avversario, dell’altro, del diverso (e destò clamore che Pannella, pur non condividendone la politica, assumesse la direzione formale di giornali come “Lotta Continua” per consentire che potessero continuare a vivere). La nonviolenza ne è il perno più originale, quello che dà sostanza e forma a digiuni, manifestazioni dirette, sit-in, promossi sia in Italia che ovunque la libertà venga minacciata, come nel 1968 quando Pannella e altri militanti manifestano nei paesi dell’Est in protesta contro l’invasione sovietica a Praga. Un liberalismo, infine, che punta, in un regime bloccato attorno ad un solo partito erede di fatto delle strutture e della società degli anni ’30, alla alternativa: e su questo terreno il giovane leader studentesco aveva già provocato nel 1959 Palmiro Togliatti, perché avviasse le masse comuniste sulla via del riformismo democratico ripetendo a livello nazionale l’esperimento promosso nell’associazionismo universitario.
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Durante la campagna del 1976, Pannella aveva preso solenne impegno che i radicali avrebbero cambiato il Parlamento, e non ne sarebbero stati cambiati: non avrebbero, cioè, ceduto alle tentazioni di un meccanismo già in evidente crisi di funzionalità e di credibilità, intaccato nelle sue più delicate prerogative, in primo luogo dai partiti del cosiddetto arco costituzionale. Il logoramento appariva già visibile, anche se con una certa fiducia si guardava ancora a quel regolamento, varato nel 1971, che aveva separato – e sembrò grande conquista democratica e superamento del modello liberale, ottocentesco – la “signoria della maggioranza” dalla “signoria procedurale” affidando quest’ultima all’Assemblea e al puntuale bilanciamento di poteri tra una maggioranza e un’opposizione ugualmente garantite dalla rappresentanza proporzionalistica. Nel loro rifiuto del compromesso storico e di tutto ciò che potesse impedire la netta distinzione costituzionale e liberale tra maggioranza e opposizione, l’attenzione prestata dai radicali a regolamenti e procedure non fu dunque casuale. Ecco, dunque, le messe a punto procedurali, le puntigliose richieste per una corretta interpretazione normativa, l’opposizione a quanto sembrasse inadeguata o arbitraria lettura dei regolamenti. Insieme, l’accentuazione data alle attività di sindacato ispettivo e di indirizzo – rispetto a quella propriamente legislativa – in quanto potessero assicurare un puntuale controllo dell’iter delle leggi nonché della loro adeguatezza e attuazione. Tornava o veniva in discussione, grazie a questa pratica efficace e insistente, il dettato costituzionale circa il ruolo del Parlamento e del parlamentare, una figura sulla quale da tempo si appuntavano critiche anche ingenerose, che ne denunciavano il colpevole assenteismo, l’incapacità che produceva impotenza, l’adagiarsi in una avvilente condizione di “peone” privo di strumenti di controllo e persino di un luogo dove esercitare il quotidiano lavoro.
Superate o esauritesi le prime ironie, la strategia di Marco Pannella e dei suoi produsse insofferenza e perplessità non appena ci si accorse che i quattro si venivano ritagliando un ruolo di opposizione parlamentare autentica, nelle sue forme più classiche, all’anglosassone: il PCI in particolare, al quale il ruolo, nel bilanciamento consociativo, doveva essere esclusivamente attribuito con le forme e i limiti del regolamento del 1971, si mostrò preoccupato. Immediati, gli sforzi congiunti messi in opera per neutralizzare, “scongiurare”, l’iniziativa radicale: sia stringendo il rapporto consociativo sia avviando una aggressiva campagna contro le “provocazioni”, i “colpi di mano destabilizzanti”, l’inceppamento ostruzionistico della Camera. L’intenso confronto investì ovviamente la Giunta del Regolamento e il Presidente dell’Assemblea, l’on. Ingrao. Ben presto, nella logica delle cose e degli equilibri politici esistenti, si venne imponendo una lettura rigida e restrittiva fin dove possibile – o altrimenti una sottile ridefinizione – delle norme, perché filtrassero o riducessero al minimo l’area delle interpretazioni favorevoli ai radicali. Ma Pannella poteva incalzare le forze della consociazione sostenendo che l’inefficienza, i ritardi del Parlamento non andavano attribuiti al recente ostruzionismo (una definizione che del resto Pannella respingeva più volte da sé e dalla sua parte) quanto piuttosto al deterioramento di fondo che proprio la politica di unità nazionale, il consociativismo, veniva determinando: e spia oggettiva delle difficoltà interne del sistema era il ricorso sempre più massiccio da parte dei governi Andreotti alla decretazione d’urgenza nonostante che il PCI votasse ormai, in Aula o nel chiuso delle Commissioni, la gran parte delle leggi presentate dal governo, dando corpo ad una maggioranza che sfiorava – come non solo i radicali osservarono – un inaudito 95%.
Questo altissimo dibattito non trovò risonanza nel paese, come i radicali avevano sperato, né la stampa né la TV, anche dopo la riforma del 1975, davano adeguata contezza di quanto accadeva a Montecitorio. In occasione di una Tribuna referendaria del 1978, Pannella aveva avuto buon gioco nell’esibire tutta l’efficacia del mezzo televisivo: quattro esponenti radicali occuparono i minuti concessi loro per spiegare le tematiche referendarie restando imbavagliati, in un irreale silenzio che voleva denunciare i silenzi dell’informazione, l’impossibilità per le opposizioni di far arrivare al paese la loro voce: politica-spettacolo certo, ma con il “mezzo” non consenziente e anzi colto di sorpresa.
Il momento più aspro del confronto si ebbe con la vicenda Moro. Da tempo nel paese cresceva la tensione provocata dal terrorismo brigatista mentre, a contrastarlo, governo e opposizione in sintonia si affidavano a una legislazione sempre più rigida e sempre meno “garantista” (ché, anzi, proprio il “garantismo” veniva posto sotto accusa, quasi fosse un cedimento alla violenza armata). Nel maggio 1977, a Roma, durante una manifestazione referendaria nonviolenta dei radicali, venne uccisa Giorgiana Masi. Una indiscussa documentazione fotografica testimoniò la presenza in piazza di forze dell’ordine in borghese, colte mentre sparavano ad altezza d’uomo. Forte fu la polemica di Pannella con il ministro degli Interni, l’on. Francesco Cossiga.
Durante i tragici cinquantacinque giorni del sequestro Moro, più volte Pannella manifestava il suo preoccupato allarme per la mancata convocazione del Parlamento (e persino degli organi statutari dei partiti), per “l’ostracismo e l’ostruzionismo” esercitato contro i “diritti-doveri” delle istituzioni rappresentative, “rapinate” di essenziali funzioni di indirizzo e di controllo in un momento di eccezionale gravità per il paese. La salvezza dell’on. Moro, egli avvertiva, andava affidata in primo luogo al rispetto della legalità e della funzionalità del Parlamento. La Camera venne sì convocata, ma per discutere sui referendum varati dai radicali e per approvare provvedimenti in materia di ordine pubblico: la cosiddetta “Reale bis” e un decreto “antiterrorismo” che furono persino assegnati, in violazione del regolamento, a due diverse Commissioni, senza garanzie circa la pubblicità dei lavori e con procedure d’emergenza che fecero parlare di vere e proprie “tentazioni di regime” presenti nella maggioranza: esperti costituzionalisti come Silvano Tosi e Francesco Cosentino manifestarono la loro aperta preoccupazione per le violazioni regolamentari con le quali l’opposizione di Pannella, che venne anche espulso dalla Commissione Giustizia, fu messa a tacere.
Nel precipitare in Parlamento di equilibri sempre più precari, in un clima generale di tesa inquietudine, l’11-12 giugno 1978 si votava sui due referendum che la Corte costituzionale e il Parlamento avevano lasciato in vita dell’originario pacchetto di otto promossi nel 1977: quello sul finanziamento pubblico dei partiti e quello sull’ordine pubblico (Legge 22 maggio 1975, n. 152, la cosiddetta “Legge Reale”). La risposta popolare al quesito relativo al finanziamento pubblico era, seppur formalmente non vincente, inequivocabile. Oltre 13 milioni votarono per l’abrogazione (43,7%): il PCI, allarmato, dovette prendere le distanze dalla pratica compromissoria e il Presidente della Repubblica on. Giovanni Leone, coinvolto nello scandalo Lockheed, fu costretto a dimettersi. Venne eletto Sandro Pertini, che avrebbe di lì a poco aperto la strada alle presidenze del consiglio laiche di Spadolini e Craxi.
Sulla linea garantista e umanitaria assunta nella vicenda Moro si sarebbe incontrato coi radicali Leonardo Sciascia al quale, per le elezioni del 1979, Pannella personalmente andava ad offrire la candidatura alla Camera e al Parlamento europeo, in liste “omnibus”, aperte a nuove energie e ai delusi della linea berlingueriana, con la quale si preannunciava uno scontro assai aspro. Lo scrittore accettò. I radicali ottennero il 3,4% e venti eletti nei due rami del Parlamento, mentre tre erano i seggi conquistati al Parlamento europeo. Sciascia e Pannella entravano sia a Montecitorio che a Strasburgo (per le europee, Pannella otteneva quasi centomila preferenze).
Il confronto sui regolamenti e sul ruolo della Camera giungeva a livelli gravissimi in occasione del dibattito sul D.L. n. 625, “misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica”, presentato dal governo Cossiga. Le sinistre respinsero una intesa coi radicali, i quali avevano offerto la loro disponibilità al ritiro dei circa 7500 emendamenti presentati, e il PCI attribuì al successivo ostruzionismo radicale l’impossibilità di acquisire “miglioramenti” al testo governativo. Il Presidente della Camera, on. Leonilde Jotti, con inedita interpretazione, stabilì che ciascun deputato non potesse parlare che una sola volta per illustrare i propri emendamenti, quanti che essi fossero. Così il decreto poté essere approvato il 2 febbraio 1980, e il PCI votare la fiducia al governo Cossiga. Il provvedimento – commentò Sciascia – era non solo “inutile”; esso faceva “tabula rasa in questo paese dell’idea stessa del diritto”.
Il decreto Cossiga fornì di fatto l’ultima opportunità per grandi confronti procedurali. Di lì a poco si sarebbe data mano a una drastica revisione del regolamento del 1971, dimostratosi troppo aperto ad una opposizione determinata, ed inutile rispetto alle nuove urgenze dei partiti. Di fatto l’emergenza, anzi la “cultura dell’emergenza”, entrava in permanente conflitto con coloro che si richiamavano ad un garantismo di stampo liberale. In tale clima si svolgeva a Roma, nel marzo 1980, il congresso straordinario del partito radicale convocato nell’imminenza di elezioni amministrative. Pannella vi faceva votare, quale “Preambolo” allo statuto del partito, un documento che riconduceva al rispetto incondizionato del diritto la “fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni” e con insolito pathos richiamava il dovere “alla disobbedienza, alla non collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa – con la vita – della vita, del diritto, della legge”. Il 12 dicembre si apriva la vicenda D’Urso, in cui sembrarono rivivere i momenti, i problemi, le ferite del caso Moro, aggravati dalle inquietudini e dai sospetti – di cui Pannella si fece interprete – su vociferati tentativi di soluzioni autoritarie che sarebbero scattati, nella probabile eventualità che il magistrato venisse ucciso, sotto l’ombra incombente della P2 e con l’appoggio aperto di forze giornalistiche e politiche trasversali.
Il 1981 fu l’anno del referendum sull’aborto e del “Manifesto dei Nobel”. Il 17-18 maggio il paese era chiamato a votare sul referendum radicale e su uno dei due proposti dal Movimento per la Vita a modifica della legge 194 del 1978. Si doveva inoltre votare su altri tre quesiti proposti dai radicali in materia di ordine pubblico, di ergastolo e di porto d’armi, restati in piedi dopo le sentenze della Corte Costituzionale che ancora una volta avevano cancellato come “inammissibili” gli altri dell’originario pacchetto di dieci, massimo sforzo referendario messo in atto da Pannella. In un confronto incandescente, anche per la violentissima campagna antiradicale delle sinistre, tutti i referendum vennero respinti. Il risultato suscitava scoramento e perplessità anche fra i radicali, e Pannella convocava un congresso straordinario che venne celebrato ai primi di giugno 1981 in un tendone eretto a Villa Borghese. Ai partecipanti Pannella ricordava quali fossero, e dovessero restare, i “tre volani” delle lotte del partito (“la nonviolenza, il diritto e i referendum”) per “strappare alla Costituzione e alla vita di ogni giorno quel tanto di bipolarismo che solo con la pratica dei referendum abbiamo potuto e possiamo tentare per il momento di realizzare nel paese”; un bipolarismo dell’alternanza e, soprattutto, di alternativa “alla tradizione giuridica – enorme – di Alfredo Rocco e allo Stato corporativo”. E a chi veniva contestando l’astrattezza della campagna sulla fame nel mondo in corso dal 1979, il leader radicale ne confermò le ragioni e gli obiettivi; ragioni ed obiettivi illustrati nel “Manifesto” da lui stesso redatto, presentato pochi giorni dopo (24-25 giugno) con le firme di 53 Premi Nobel (altri 28, assieme a Capi di Governo, uomini di cultura, religiosi, sindaci, avrebbero aderito successivamente). Il “Manifesto dei Nobel” tratteggiava le coordinate della lotta dichiarata ormai indispensabile per battere “il nuovo Olocausto” dei nostri tempi: la morte annunciata, per fame e povertà, di masse di uomini, donne e bambini del terzo e quarto mondo. L’appello rivolto ai cittadini e ai responsabili politici di ogni paese era per “nuove leggi, nuovi bilanci, nuovi progetti e nuove iniziative che immediatamente siano volti a salvare miliardi di uomini dalla malnutrizione e dal sottosviluppo…”; leggi da conquistare in ogni paese con iniziative anche militanti, nonviolente gandhiane, esplicitamente evocate.
Nella sua relazione di minoranza sul caso Moro, che è del giugno 1982, Leonardo Sciascia scriveva che “l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa” alla salvezza dello statista era venuta dalla “decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate Rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte…”, cosicché “trovare vivo il Moro ‘altro’ quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel portabagagli di una Renault”. Giudizi pesanti, di censura morale prima che politica, che non potevano non inasprire l’isolamento dei radicali. Era, questo, il prezzo da pagare nel confronto con i partiti, anzi con la “partitocrazia”; ma, anche, un punto di forza. E tuttavia i radicali ne avvertirono di più il peso quando esso venne coinvolgendo quel PSI con il quale concordanze e prossimità oggettive si erano segnalate anche nelle vicende Moro e D’Urso. Il PSI accentuò anzi, a un certo punto, la sua pressione fino ad attrarre nella sua area alcuni deputati ed esponenti del partito della rosa nel pugno.
Al problema del rapporto con i socialisti i radicali erano tradizionalmente attenti; fin dall’epoca del divorzio, essi avevano sempre sollecitato i germi di tradizione libertaria presenti in quel partito. Alla metà degli anni ’70 fu proprio Pannella ad auspicare un “riequilibrio” tra le forze della sinistra a vantaggio del PSI, quale premessa indispensabile per realizzare l’alternativa alla DC; in molte occasioni, poi, il leader radicale cercò di tener teso e di non far spezzare il filo rosso di questa prospettiva: ma l’urgenza dell’obiettivo era rimossa da classi dirigenti ovviamente gelose del proprio primato, della propria egemonia su un terreno, e non poteva essere altrimenti, comune. Né era facile per i socialisti affrontare i rischi insiti nella strategia pannelliana, per timore di perdere posizioni di potere ritenute irrinunciabili, ed anzi da ampliare.
Si arrivò così alle elezioni, anche queste anticipate, per la nona legislatura, con la discussa candidatura di Toni Negri nelle liste radicali. Subito dopo, il Presidente Pertini chiamava alla Presidenza del Consiglio l’on. Bettino Craxi. Interessato ad assicurarsi le condizioni di una stabilità politica su cui fondare l’immagine di una forza socialista riformatrice capace di bloccare l’instabilità del sistema, Craxi trasse un sicuro vantaggio dal “codice di comportamento” adottato dagli eletti radicali. Questi, di fronte al “vizio di nullità” della prova elettorale e al “sequestro di qualsiasi regola parlamentare da parte della partitocrazia”, avevano stabilito che non avrebbero assunto iniziative legislative né avrebbero partecipato al voto d’aula. In molte occasioni (e ricorderemo solo il dibattito sugli euromissili) il non-voto dei radicali fu determinante, se non altro sul piano politico. Così, nonostante il duro scontro sul Concordato, poterono aprirsi convergenze e intese, come per il referendum sulla contingenza (1985) e per il voto finale sul disegno di legge presentato dall’on. Flaminio Piccoli e da circa centocinquanta deputati di tutti i gruppi (tranne PCI e MSI) sulla fame nel mondo. Nel 1986, due terzi dei parlamentari socialisti aderivano alla “Lega per l’uninominale” messa in piedi dai radicali e nello stesso anno il PSI promuoveva assieme a radicali e liberali i referendum “per una giustizia giusta” – in particolare quello assai controverso sulla responsabilità civile del giudice – maturati nel tormentato clima della vicenda Tortora. Il lungo iter processuale del presentatore televisivo (ed eurodeputato radicale nel 1984) aveva visto radicali e socialisti condividere giudizi e comportamenti, sfociati in una consonante critica alla magistratura e allo stesso CSM. Il dialogo tra il PSI al governo e il PR all’opposizione suscitò anzi incomprensioni e sospetti a sinistra, mentre con diffidenza venivano seguiti gli sforzi di Pannella di dar corpo, per le elezioni amministrative del 1985, a una forte ed autonomo “soggetto verde”. Rinfocolò ulteriormente sospetti e incomprensioni la denuncia da parte del leader radicale – con serie motivazioni storiche e politiche – dell’ipotesi stessa di una alternativa “di sinistra”. E l’on. Claudio Martelli potè prefigurare, per le elezioni del 1988, una gara a tre tra la DC, il PCI e un inedito polo laico-radicalsocialista al quale Pannella preconizzò una capacità di attrazione vincente.
Questa persuasiva prospettiva fece scattare più di un campanello di allarme; nel 1987 il segretario della DC, on. Ciriaco De Mita – con il consenso del segretario del PCI on. Alessandro Natta cui era fatta balenare la dissoluzione del governo pentapartito – determinava bruscamente le condizioni per elezioni anticipate. Craxi si trovò fuori dal governo e si andò al confronto elettorale in una confusa situazione politica, con la DC che si era persino astenuta sul governo dell’on.Fanfani designato dal Presidente Cossiga, dopo convulse consultazioni, proprio per aprire la strada a consultazioni anticipate.
Si chiudeva così l’esperimento di governo a direzione socialista, ma anche la stagione della prossimità di intenti tra socialisti e radicali. Nella nuova legislatura, i socialisti avrebbero appoggiato la legge che vanificava il referendum sulla responsabilità civile del magistrato svoltosi nel novembre 1987 e si sarebbero opposti alla candidatura di Marco Pannella a Commissario CEE. Di ritorno dagli Stati Uniti, l’on. Craxi sollecitava un inasprimento della legislatura sulla droga che era netta chiusura alla iniziativa antiproibizionistica avviata da Pannella nel 1984 quale logico sviluppo delle campagne condotte, coi consensi socialisti, fin dagli anni ’70. Nell’ottobre 1989, infine, grazie al voto determinante anche dei socialisti, la Camera votava a sorpresa l’accettazione delle dimissioni da deputato di Marco Pannella, motivate con la denuncia della legge che aveva eluso il referendum sulla responsabilità civile del magistrato e della “disinformazione” indotta dalla stampa e dalla TV di Stato ai danni persino del Parlamento e della sua immagine.
L’insistenza di Pannella sul tema dell’informazione – del resto (come abbiamo ben visto) non nuova – trovava nuove giustificazioni. Il dietrofront dei socialisti, ora poco interessati all’apertura verso le altre forze laiche e verdi e attratti piuttosto dal profilarsi di un nuovo scontro diretto con la DC sul tema della “Grande Riforma”, rendeva più prossimo il sempre incombente pericolo dello strangolamento del partito radicale e della sua linea politica di complessiva crescita del polo riformatore. La distorsione, l’annullamento dell’immagine se non addirittura dell’identità radicale, era tra gli obiettivi desiderabili e primari di una partitocrazia tesa ormai – come mille voci venivano denunciando – alla definitiva spartizione, o “lottizzazione”, delle istituzioni, dell’economia e del paese. D’altra parte, nonostante la legge 73/85, il progetto sulla fame nel mondo stava esaurendo la sua carica creativa. La stessa legge adottata dal Parlamento, pur inadeguata rispetto al grande disegno radicale, richiedeva da parte dell’autorità di gestione una determinazione di intenti e una precisione di obiettivi incompatibile con gli interessi molteplici, laici come cattolici, che ruotavano attorno all’impiego degli stanziamenti.
In positivo, la lunga campagna aveva comunque fatto spaziare gli sguardi ben oltre i confini italiani, e fatto maturare nel leader radicale la convinzione che fosse ormai necessario, per assicurare profondo duraturo successo a qualsivoglia progetto riformatore all’altezza dei problemi del nostro tempo, il superamento del quadro di riferimento nazionale. La convinzione veniva rafforzata dall’esperienza nel Parlamento europeo, sempre confermata a partire dal 1979. Qui, oltretutto, Pannella condusse importanti battaglie federaliste prima a fianco e poi, dopo la morte, in continuità di ispirazione con Altiero Spinelli (che indicò in lui, del resto, il suo erede politico). Già al congresso radicale del novembre 1985 a Firenze, Pannella aveva fatto approvare una risoluzione per la quale, “constatata l’impossibilità di esercizio dei diritti democratici e della prosecuzione stessa della propria attività”, il partito affidava agli organi statutari “il mandato di proporre al congresso prossimo un progetto di cessazione delle attività”. Venne così articolandosi e prendendo corpo il progetto di un partito “transnazionale” e “transpartito” adeguato, nelle strutture, nei mezzi e nei comportamenti, ai nuovi convincimenti. Il congresso di Bologna del gennaio 1988 fece un ulteriore passo avanti, deliberando che il partito radicale avrebbe comunque e definitivamente rinunciato a partecipare alle competizioni elettorali nazionali con proprie liste e proprio simbolo.
L’indicazione “transpartitica” parve per un momento realizzarsi. Alle elezioni europee del 1989, esponenti radicali vennero presentati, ed anche eletti, in liste diverse, verdi come socialdemocratiche (si coagulò peraltro anche, con successo, una lista antiproibizionista di forte impronta radicale). Da parte sua, Marco Pannella arrivava a Strasburgo grazie ad un accordo con il PRI e il PLI che per un momento giunse anche a configurare una “federazione” nella quale confluissero le disperse e minoritarie forze laiche. Ma, a prescindere dai risultati elettorali, scarsi, cui venne costretto per le indecisioni dei repubblicani e dei liberali restii alla presenza di Pannella, il “polo” laico fu affossato dalla opposizione di Craxi, ostilissimo ad una forza potenzialmente concorrenziale; Né miglior fortuna ebbe l’appello rivolto da Pannella al PCI nel momento in cui il suo segretario on. Occhetto si apprestava alla sua rifondazione, o meglio alla convocazione di una grande “costituente democratica” tra le forze della sinistra. Vischiosità di apparati, fragilità o scarsezza di convinzioni fecero ostacolo a tale sviluppo. Invece della “costituente” si ebbe il puro e semplice cambiamento di nome: nasceva il Partito Democratico della Sinistra (PDS).
Non meno complesso il cammino del progetto transnazionale. Il congresso di Budapest dell’aprile 1989, confermando la decisione di andare avanti nella sua realizzazione, affidava a un organismo straordinario di quattro membri la gestione del partito (o delle sue residue strutture, sempre in bilico tra la liquidazione e l’adeguamento, comunque avviato con grande tenacia, all’ambizioso progetto). I deliberati di consigli federativi tenuti, più che simbolicamente, in città non italiane (Bruxelles, Madrid, Gerusalemme, Trieste-Bohiny, Strasburgo) cominciavano a svilupparne le tematiche, ma difficoltà tecniche e finanziarie rendevano precaria la messa in opera di un minimo di strutture atte a collegare in tempi certi gli iscritti di paesi e lingue diverse. Si venne così sperimentando il Servizio telematico plurilingue “Agorà”, e finalmente nel maggio del 1991 era presentato il primo numero del periodico “Il partito nuovo”, stampato inizialmente in dieci lingue (poi in quattordici) e diffuso su 250.000 nominativi, tra cui 40.000 parlamentari ed esponenti politici di oltre 100 paesi di 4 continenti: “Occorre che alla stessa ora, nella stessa forma, con gli stessi contenuti, con le stesse manifestazioni di massa e nonviolente – scriveva nell’editoriale Marco Pannella – uguali testi legislativi siano presentati e sostenuti nei nostri Parlamenti e nelle nostre città, nei nostri ‘partiti’ o nelle nostre ‘internazionali'”. Le risposte più cospicue vennero dai Paesi dell’Est europeo.
Il 9 giugno 1991 si teneva il referendum sulla preferenza unica per le elezioni alla Camera dei deputati richiesto dal Comitato per i Referendum Elettorali (COREL) di cui era animatore l’on. Mario Segni (il quale aveva a suo tempo aderito alla “Lega per l’uninominale”). A gennaio la Corte costituzionale, ormai filtro anche “politico” in materia referendaria, aveva annullato i due altri quesiti cui quello sulla preferenza unica si accompagnava. Ma il voto del 9 giugno (contrastato dai partiti, con l’on. Craxi, segretario del PSI, che invitava a disertare le urne) era ugualmente un segnale inequivocabile del profondo disagio dell’opinione pubblica. Il disagio popolare era accentuato dalle pressanti iniziative ed “esternazioni” del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, per le quali si giunse perfino a presentare in Parlamento denunce per “attentato alla Costituzione” (quella inoltrata ad agosto da Marco Pannella arrivò ad essere discussa dal Comitato parlamentare per le autorizzazioni a procedere). Il
voto dava le ali al movimento referendario. Scendeva così in campo, oltre al COREL di Segni, il CORID, Comitato per le Riforme Democratiche, presieduto dal prof. Massimo S. Giannini ma in larga misura promosso da alcuni esponenti radicali, i quali avevano già tentato, attraverso l’Associazione Radicale per la Costituente Democratica (ARCOD), di sollecitare e coinvolgere Pannella e il partito perché non abbandonassero ad altri soggetti politici il terreno delle riforme istituzionali. Tre referendum promuoveva il COREL e tre il Comitato Giannini. Con decisione dell’ultimo momento – che non mancò di destare sorpresa e anche recriminazioni – il partito radicale depositava a sua volta richiesta di altri tre referendum: abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, non punibilità dei tossicodipendenti e (assieme agli Amici della Terra) riforma delle USL. I radicali avviavano quattro giorni prima degli altri comitati la raccolta delle firme, estesa a tutti e nove i referendum. Parte della stampa questa volta guardò con simpatia alla nuova ondata referendaria, occhieggiando soprattutto all’on. Segni, presentato come affidabile garante contro gli eccessi della partitocrazia. La consegna in Cassazione delle 750000 firme raccolte avvenne in coincidenza con l’apertura, a Roma, del IV Congresso italiano del partito radicale (9-12 gennaio 1992).
Alle elezioni anticipate del 5 aprile 1992 la gravita della crisi partitocratica si faceva palese già nella proliferazione delle liste, tra le quali trovò spazio e giustificazione la “Lista referendaria”, presentata dal comitato Giannini per l’impulso determinante dei radicali già dell’ARCOD e con cospicue adesioni di esponenti dell’opinione pubblica “liberal”. Con mossa a sorpresa, il leader radicale puntava a sua volta le carte su una inedita “Lista Pannella”, che concretizzava la definitiva scomparsa elettorale del partito della “rosa nel pugno”. La lista si presentò come prefigurazione di quel sistema uninominale (“secco, all’inglese”) che chiede voti non per i partiti, ma sull’uomo, sul candidato. Sorprendentemente, ottenne l’1,2% e inviò alla Camera (al Senato l’accordo proposto a Verdi e referendari di Giannini non si era realizzato) 7 deputati.
Il massiccio, scontato successo elettorale della Lega Nord mutava profondamente gli equilibri parlamentari, tutti da esplorare. Il confronto per le elezioni alle cariche istituzionali (il 28 aprile si dimetteva il Presidente della Repubblica, on. Francesco Cossiga, e si doveva procedere anche alla sua successione) appariva aperto e difficilissimo: manovrando nel varco delle incertezze e delle inquietudini delle forze politiche, Pannella sosteneva e riusciva a vedere eletto l’on. Oscar Luigi Scalfaro, prima a Presidente della Camera e poi a Presidente della Repubblica.
Veti, perplessità, timori impedivano probabilmente a questo punto che potesse prendere corpo una candidatura di Marco Pannella (pur ventilata) ad un incarico governativo di rilievo, mentre per parte sua il leader radicale si attestava in una intransigente opposizione al governo presieduto dall’On. Amato, giudicato inadeguato e debole. Ma l’aggravarsi della situazione non solo economica, in concomitanza con il collasso delle politiche europeiste incentrate sul Trattato di Maastricht, induceva nel settembre il Gruppo Federalista a dare un non contrattato appoggio (e la cosa fece ovviamente scalpore) al governo, impegnato in una manovra finanziaria ed economica di estrema urgenza che sarebbe stata irreparabilmente compromessa – nel discredito internazionale – da una crisi politica (e fors’anche istituzionale) al buio.
Due iniziative settoriali di Pannella vanno qui almeno ricordate, la partecipazione alla vita del consiglio regionale di Abruzzo al quale era stato eletto nel 1991 (in una “Lista Antiproibizionista contro la criminalità”) e i “cento giorni” come presidente della XIII circoscrizione del Comune di Roma, Ostia. In Abruzzo Pannella agitò la bandiera di un “laboratorio politico” dove, con il concorso di esponenti del PDS e di altre forze politiche, prefigurare il rinnovamento delle strutture partitiche; a Ostia colse l’occasione, nella crisi del Comune di Roma investito anch’esso dall’inchiesta “mani pulite”, per abbozzare un valido modello di governabilità a livello locale: e in effetti, nei cento giorni promessi al momento della sua elezione, Pannella riusciva ad ottenere un inedito Regolamento circoscrizionale che conferiva ampie autonomie al mega-quartiere romano e ad avviare una seria lotta contro il devastante abusivismo edilizio.
Pur nell’incalzare della situazione (o meglio, della dilagante crisi) italiana, attenzioni prioritarie erano dedicate al partito transnazionale. La caduta del muro di Berlino, il tentativo di golpe a Mosca con la successiva estromissione di Gorbaciov e la dissoluzione dell’URSS, la drammatica crisi della Jugoslavia fornivano occasioni di iniziativa. Nel giugno 1991, i radicali decidevano di appoggiare le richieste di indipendenza delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia e di concreta autonomia del Kossovo e della Macedonia. Interventi al parlamento europeo ed italiano, digiuni, manifestazioni in varie città d’Europa, la convocazione nell’ottobre-novembre di un consiglio federale del partito a Zagabria erano momenti di una presenza politica che culminava nella decisione di recarsi nelle zone più duramente investite dai combattimenti, le città di Osijek e di Nova Gradiska, in attiva e nonconformista solidarietà con le popolazioni slovene e croate e contro le violazioni del diritto perpetrate dalle dirigenze serbe. Non poteva non fare “scandalo” che militanti e parlamentari nonviolenti, e in primo luogo Marco Pannella, indossassero provocatoriamente e simbolicamente la divisa dell’esercito croato. Il gesto fu una visibile protesta e denuncia delle incertezze dell’ONU e soprattutto delle paure, dei silenzi, delle compromissioni della CEE, divisa e impotente dinanzi a un incendio sul cui sfondo si stagliavano i fantasmi dei fascismi, dei nazionalismi, dei totalitarismi che avevano infestato l’Europa a partire dalla guerra civile di Spagna.
Dal 30 aprile al 3 maggio aveva luogo a Roma la prima sessione del 36^ Congresso del partito transnazionale. Arrivarono decine di personalità politiche non italiane, provenienti soprattutto dall’est europeo. Zdravko Tomac, vicepremier croato e iscritto al partito, presentava la mozione per un appello all’intervento in Jugoslavia della comunità internazionale. Pur nell’evidente successo politico, il Congresso doveva prendere atto del fatto che le adesioni, specie in Italia, erano insufficienti a dare effettivo corpo al progetto: le conclusioni relative al consolidamento definitivo o allo scioglimento del partito transnazionale venivano così rinviate a una seconda sessione da tenersi ai primi del 1993.
All’autunno del 1992 risultavano iscritti quasi 200 parlamentari (ma anche ministri) rappresentanti di circa 70 partiti di almeno 30 paesi, ma sempre vistosamente carenti erano le iscrizioni in Italia, le sole che potessero – per l’entità della quota associativa – assicurare un introito sufficiente a ripianare i debiti e ad assicurare almeno un anno di vita al partito. Così, la seconda sessione del Congresso (4-8 febbraio 1993) si apriva in una drammatica incertezza. Pannella confermò la decisione di mettere in liquidazione il partito in caso di fallimento dell’obiettivo iscrizioni. Ma questa volta, clamorosamente, la sorte dei radicali coinvolse emotivamente e politicamente l’opinione pubblica e numerosi esponenti di quasi tutti i partiti, persino democristiani, presero la tessera, mentre la stampa si aprì ad una massiccia campagna di informazione e di sostegno. Alla chiusura del Congresso, si formava un comitato di personalità eccellenti che si assumeva l’impegno di promuovere una vasta campagna di adesioni per far vivere il “transpartito” radicale.
L’eccezionale conversione dell’opinione pubblica era l’evidente segnale del nuovo prestigio guadagnato dal leader radicale con il suo atteggiamento parlamentare improntato alla massima fedeltà istituzionale e con l’appello alla “nobiltà della politica” rivolto al paese in un momento in cui quasi l’intera classe dirigente del PSI e degli altri partiti veniva travolta dall’iniziativa “Mani Pulite” avviata dalla magistratura milanese.
(*) Angiolo Bandinelli è nato a Chianciano (Siena) il 21 marzo 1927. Laureato in lettere classiche, ha insegnato negli istituti medi superiori.
Iscritto al Partito d’Azione durante la resistenza, ha poi aderito al Movimento Federalista Europeo con vari incarichi, e al Partito Liberale. Nei primi anni ’60 è tra coloro che, con Marco Pannella, danno vita alla ricostituzione del Partito Radicale. Redattore e direttore di “Agenzia Radicale”, della rivista “La Prova Radicale” e, per molti anni, di “Notizie Radicali”. Segretario politico del partito per tre anni, per molti anni tesoriere e membro del Consiglio Federale. Consigliere Comunale a Roma e deputato nella nona legislatura.
Ha collaborato al “Mondo” di Pannunzio, a “Nord e Sud”, alla Rai. Editorialista di Radio Radicale. Oltre a numerosi saggi politici e letterari su riviste e periodici, ha pubblicato nel 1990 “Il radicale impunito. Nonviolenza, diritti civili, Europa”. Ha tradotto da T.S. Eliot, D.G. Rossetti, R. Lowell, A. Beardsley, ecc. Dirige la collana politica delle edizioni “Biblioteca dell’Immagine”.